Politiche industriali di sinistra o lotta di classe?

Considerazioni sul libro “Dove sono i nostri”

Stefano Macera

Capitalistpyramid_posterNon dovrebbero sorprendere i consensi sin qui ricevuti dal libro Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi (La casa Usher, Lucca, 2014). E’ infatti positivo che qualcuno si ponga l’obiettivo di affrontare seriamente la “questione delle questioni”, ossia com’è formato, oggi, il proletariato italiano.
Non si usa qui a caso l’avverbio seriamente. Troppo spesso tale nodo decisivo viene risolto aprioristicamente, ad esempio definendo la nostra classe di riferimento sulla base dell’intuizione, più o meno fondata, di alcune tendenze della realtà sociale e produttiva, senza successive verifiche di alcun tipo.
Di contro, vi è anche chi si basa esclusivamente sulla prassi quotidiana, per cui i soggetti raggiunti dal proprio intervento (che siano i disoccupati organizzati nelle liste o, poniamo, chi lavora nelle cooperative sociali) diventano automaticamente quelli centrali, le cui caratteristiche sarebbero rivelatrici della generale condizione degli sfruttati.


In Dove sono i nostri, invece, ci si confronta con statistiche che riguardano l’intero mondo del lavoro in Italia. Si tratta di elementi di conoscenza forniti dagli istituti di ricerca di quella controparte che, rispetto a noi, ha ben altra intelligenza dell’attuale situazione delle classi sociali.
Tale approccio, mirante ad avere lo stesso sguardo globale del padronato, per meglio perseguire obiettivi ad esso contrapposti, è già una novità dirompente rispetto alla canonica filosofia dell’antagonismo sociale.
Tanto da produrre immediatamente un effetto: che “i nostri” – intesi nella loro totalità – tornano a riprendersi la scena, ad essere di nuovo i protagonisti di una discussione in cui, per molto tempo, sono stati presenti in modo frammentario.
Il fatto è che alla logica, appena accennata, per cui si tende ad assolutizzare l’importanza dell’unico segmento di classe con cui si ha una relazione stabile si assomma, spesso, la subalternità ai messaggi veicolati dai media ufficiali. Tanto che ci sono interi pezzi del movimento italiano che si occupano solo delle lotte tra capitale e lavoro che “bucano lo schermo”.
Così, dall’Innse di Milano agli autoferrotranvieri di Genova, abbiamo avuto tutta una serie di episodi conflittuali che, pur suscitando entusiasmo, sono stati perlopiù considerati isolatamente. Oggi, sulla base del contributo fornito da Clash City Workers con questo libro, si può finalmente tentare di inserirli in un contesto più ampio, cominciando a definire come i soggetti sociali che li hanno animati si collocano all’interno di quello che è il proletariato italiano odierno.

 

Limiti del dibattito a sinistra
Qualcuno, per giustificare almeno parzialmente tali limiti “di visione” del ceto militante, dirà che la frammentarietà si lega anche al modo in cui ci si è presentata la “classe” nell’ultimo ventennio, in seguito alle trasformazioni della sfera produttiva e del mercato del lavoro.
In effetti, da tempo, ciò che risulta immediatamente visibile è la sua dispersione in una miriade di figure sociali diverse, subordinate al padronato tramite le forme contrattuali più variegate e sparpagliate in unità produttive spesso molto piccole.
Ma siamo propri sicuri che questa sia la realtà oggettiva e non piuttosto un’apparenza, in cui elementi concreti si fondono con rappresentazioni? Purtroppo alcuni, per schivare certe difficoltà di lettura, sono fuggiti anche concettualmente dai posti di lavoro, sviluppando la convinzione che sia possibile raggiungere “i nostri” solo nella dimensione territoriale, cercando di organizzarli in lotte come quelle per la casa, i trasporti gratuiti, i servizi sociali.
Ma dando per scontata l’impossibilità di intervenire con continuità nei luoghi di lavoro, sono state rese più deboli le stesse, importanti battaglie portate avanti nello spazio metropolitano. Che essendo, in sostanza, lotte per il “salario indiretto”, possono trarre più d’un beneficio dal legame stabile con le resistenze in atto nei posti di lavoro in varie parti della penisola. A questo, complessivo atteggiamento d’una parte cospicua dell’antagonismo sociale, va aggiunta la spinta legata ad alcuni dei più noti “economisti di sinistra”. I quali, in questi anni, hanno avuto il merito di rompere con il pensiero unico liberista, con il riformismo delle continue ridefinizioni del mercato del lavoro a vantaggio della Confindustria, offrendo un altro, stimolante punto di vista. Ma anche il loro discorso ha dimostrato delle falle, forse generate dalla tendenza a fare i consiglieri del principe.
In sostanza, l’assenza di organizzazioni politiche e sindacali capaci di collocarne il contributo in quello che una volta si sarebbe definito progetto proletario, ha spinto studiosi che pur si rifanno alla lectio marxiana a rivolgersi, idealmente, al sistema paese nel suo complesso (implicitamente, anche a chi lo amministra).
Con l’idea di suggerire i termini di una politica industriale capace di evitare all’Italia un declino rovinoso, coincidente addirittura con la perdita totale del suo apparato produttivo. Tale approccio si è purtroppo saldato con quello di una parte della sinistra di classe, contribuendo a rendere meno visibili “i nostri”. Il punto è che concentrandosi troppo sulle oscillazioni mensili delle tabelle dell’import/export, si sono persi di vista i dati concernenti quel che avviene realmente nel laboratorio della produzione.
Se ne fosse maggiormente tenuto conto, l’evidente calo di posizioni dell’Italia nella competizione globale sarebbe stato diversamente collocato. Evitando di dare per scontato un futuro prossimo basato sulla centralità esclusiva dei servizi e del turismo. E ponendosi qualche problema prima di definire periferia il belpaese. (Si pensi a come si esprime Riccardo Realfonzo in una intervista rilasciata a controlacrisi.org il 12 ottobre 2013: “(…)aumenta sempre più la divergenza tra le aree centrali dell’eurozona, che comunque riescono a crescere, e le sue periferie – come la Grecia, la Spagna, la stessa Italia – nelle quali il Pil continua la sua caduta e la disoccupazione sale vertiginosamente”. A nostro avviso, il concetto di periferia rischia di diventare generico, se viene usato per accomunare paesi cui la divisione internazionale del lavoro continua ad assegnare assai diverse specializzazioni). Non suona forse strana l’evocazione di un passaggio repentino dal rango di potenza industriale di prim’ordine a quello di paese in via di sottosviluppo?
Certe forzature sembrano attenere al ruolo che, in qualche modo, si è assunto. E’ come se questi economisti ritenessero che – estremizzando alcuni aspetti della realtà – la loro voce possa avere maggiori possibilità d’ascolto. Ma non dilunghiamoci troppo. Quel che va segnalato è che nel testo realizzato da Clash City Workers si superano brillantemente alcune delle contraddizioni insite negli angoli visuali sin qui delineati.

 

Se il proletariato è sempre più omogeneo
In tre capitoli (dal II al IV) si svolge un’analisi dettagliata delle diverse articolazioni della forza-lavoro, che ad esempio restituisce quante “situazioni di subordinazione e sfruttamento” si nascondano dietro la definizione in sé problematica di lavoro indipendente. Sulla scorta di quanto acquisito in questo cammino analitico, si approda, nelle Conclusioni, alla constatazione di un fenomeno che contraddice il pessimismo diffusosi, negli anni scorsi, nelle aree antagoniste: la tendenziale omogeneizzazione delle condizioni fra i diversi comparti della classe, “che vedono diventare le loro condizioni di vita e le loro aspettative sempre più simili”. Si tratta, ovviamente, di un dato tendenziale, che è però favorito dalla crescente finanziarizzazione che investe l’intera economia italiana. Il fatto “che tutte le aziende (…) possano essere quotate in Borsa”, infatti, produce fra di loro una sempre più aspra “competizione per attrarre capitali. Ma per attrarre capitali bisogna garantire agli investitori una remunerazione maggiore rispetto a quella dei propri concorrenti. Non potendo (…) agire sul capitale costante” occorre “attaccare (…) le condizioni di lavoro”. Questo passaggio ci pare assai significativo. Confermando che, nel libro, si va oltre quella fotografia dell’esistente che potrebbe risultare da una trattazione dei dati scissa dalla comprensione degli effetti nel tempo degli aspetti più significativi del capitalismo attuale.
Naturalmente, stiamo parlando di un fatto oggettivo, ben lungi dall’essere consapevolmente assunto dai “nostri”. Ma è compreso, in tutta la sua portata, dalla controparte, impegnata – come giustamente si asserisce nel testo – nello sforzo di imbrigliare ogni potenziale spinta conflittuale dentro la rete del neocorporativismo, cioè dell’insieme di pratiche e ideologie che legano i settori proletari al cosiddetto superiore interesse nazionale.
A fronte di tale situazione, e dell’atteggiamento del padronato, dei media e del sindacalismo di stato, risulta davvero inadeguato e fuori tempo massimo il discorso per cui, data la difficoltà di organizzare i proletari nei posti di lavoro, li si può raggiungere solo nei territori. Assai più proficuo, in questo senso, è il modus operandi di Clash City Workers. Che quotidianamente si confronta con i conflitti in varie parti d’Italia, facendoci ascoltare la voce delle persone che li pongono in essere. Le quali, consultando il sito del collettivo, si accorgono che la loro situazione non è speciale, ma comune ai più. Una goccia nell’Oceano? Forse no. Se un’attività simile venisse portata avanti da altri pezzi del composito, ma non sparuto antagonismo italiano, qualcosa si potrebbe spostare nel paese. Nel senso che segmenti sempre più larghi del proletariato italiano potrebbe pervenire a una diversa coscienza (e rappresentazione) di sé.

 

Un’Italia senza industrie?
Ma nel libro vi sono anche elementi utili a chi voglia contrastare l’idea che l’Italia sia destinata a perdere persino la parvenza di un tessuto industriale. Invero, di questa profezia esistono due versioni. La prima, con cui si interloquisce nel testo, colloca tale apocalittico scenario in una ipotetica spinta di tutte le economie avanzate a trasferire completamente nelle periferie ogni attività produttiva. La seconda è quella con cui abbiamo polemizzato prima e rimanda all’impulso dato al dibattito dagli economisti alternativi, che a ogni stabilimento chiuso fanno seguire una recriminazione circa la specificità del caso italiano rispetto al resto delle grandi nazioni europee, invocando serie politiche industriali per salvare il paese dal rischio di scivolare nel “terzo mondo”.
Entrambi i discorsi vengono, a mio avviso, smentiti nel Capitolo I (La Struttura Produttiva Italiana), anzitutto facendo riferimento a una ricerca svolta dal Servizio Studi di Intesa Sanpaolo, ove si disvela la sostanza del fenomeno che normalmente viene rappresentato come espansione irrefrenabile del settore dei servizi. In realtà, “sono cresciuti i servizi connessi all’industria”, in linea con quanto accaduto negli altri paesi a capitalismo avanzato, dove il terziario dominante è quello “più legato – anzi interdipendente e spesso corrispondente – alla manifattura”. Si tratta del frutto di trasformazioni avvenute dagli anni ’70 in poi, con quei complessi processi di informatizzazione e di esternalizzazione di interi rami della produzione che hanno fatto sì che sotto la denominazione di servizi si svolgano attività necessarie alla valorizzazione del capitale, spesso svolte da operai.
Ma negli ultimi anni, alla tendenza suddetta si deve aggiungere una spinta alla “rilocalizzazione”, cioè al ritorno nei paesi del centro dei capitali già investiti nelle periferie. Un processo che potrebbe riguardare pure questo paese. In cui, a dire il vero, attraverso le politiche di azzeramento dei diritti dei lavoratori, si sono create condizioni favorevoli non solo al rientro dei capitali delocalizzati. E’ di questi giorni, infatti, la notizia del rinnovato interesse per la penisola degli investitori esteri, attratti dalla possibilità di sfruttare una manodopera con sempre minori tutele. Dunque, la pur claudicante Italia pare destinata a rimanere un polo industriale, replicando in forme proprie dinamiche tipiche degli altri paesi a capitalismo avanzato. Alla luce di ciò, quello lanciato da alcuni pur volenterosi economisti può quindi esser considerato un allarme male indirizzato: la situazione è di sicuro preoccupante, ma in un senso diverso da quanto da loro profetizzato. Ora che lo sappiamo, possiamo mandare in soffitta i vari appelli volti alla salvezza del paese, concentrandoci sul sostegno al conflitto che si dispiega nei settori produttivi.

 

Per uno sguardo oltre i confini
Certo, dirà qualcuno, poiché, come s’è accennato qui, il cammino dell’Italia coincide fortemente con quello degli altri capitalismi maggiori, nel libro si poteva fare un passo ulteriore, allargando lo sguardo oltre il proletariato italiano. Tanto più che, ormai, è impossibile concepire la lotta di classe in termini esclusivamente nazionali.
Chi scrive ritiene molto semplicemente che circoscrivere il campo d’indagine fosse inevitabile, volendo fare un discorso scientificamente fondato. E’ piuttosto difficile aggredire in una sola pubblicazione l’intero sistema produttivo a livello continentale. Col tempo, si può però superare quest’ottica parziale. Come? A nostro avviso, sarebbe necessario creare gruppi e luoghi di studio sui singoli settori del capitalismo, così da evidenziarne le caratteristiche non solo in senso generale. Per dire, poniamo che da domani ci mettiamo ad analizzare quella logistica che è “formalmente ascritta ai servizi” pur essendo, come il libro puntualizza, “una fase necessaria alla valorizzazione della merce”. Bene, poiché lo sviluppo di questo comparto economico è connesso all’export e all’organizzazione della produzione in uno spazio non solo nazionale, il nostro studio potrà essere concepito in termini almeno europei.
Certo, poi si porrà il problema di confrontare questo contributo specifico con altri, connessi ad ulteriori sfere economico-produttive. Però, avremmo evitato quelle rappresentazioni “a volo d’uccello”, che rischiano di perdere per strada qualcosa di più che questo o quel dettaglio. Non solo. Si guadagnerebbe pure in concretezza, quando si sviluppano i consueti – e legittimi – discorsi sull’unificazione delle lotte su scala continentale per sconfiggere il nemico comune: la borghesia imperialista europea.
Perché restituendo le specifiche modalità attraverso cui le economie europee sono fra loro interrelate, cogliendo realmente i nessi fra le lotte che si svolgono nei diversi stati, l’invocazione d’una opposizione di classe su scala continentale comincerebbe a essere qualcosa di più d’una mera petizione di principio.

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