La prefazione di Francesco Casetti a “L’età neobarocca”

 

Rileggere L’età neobarocca a trentacinque anni di distanza dalla sua pubblicazione ha un effetto doppiamente positivo. Da una parte si coglie ancora tutta la perspicacia, l’abilità e la forza con cui Omar Calabrese ha scritto queste pagine: si tratta di libro felice, che mantiene ancora con sé tutta la sua felicità. Dall’altra esso contiene una lezione che non si è perduta con gli anni. Nel trasferire un tipo di analisi solitamente usato per opere letterarie, figurative, o filmiche a una miriade di oggetti e di eventi che costituiscono il sostrato di un’epoca, L’età neobarocca compiva una sorta di salto mortale, ma lo faceva con una consapevolezza e una lucidità straordinarie. I trapianti di metodologie non sono mai innocenti; quello di Calabrese era però un rischio del tutto calcolato. In questo senso il suo libro non è solo felice, è anche coraggioso – e di un coraggio che oggi può essere un buon viatico a una ricerca spesso troppo compartimentalizzata.
Quando uscì, L’età neobarocca rappresentò una svolta negli studi semiotici a diversi livelli. Ho già accennato al livello metodologico. Calabrese nella prima parte del libro presenta con grande chiarezza il problema: come utilizzare fino in fondo il “metodo strutturalista”?
Come trarre partito da quel processo mentale di smontaggio e rimontaggio dei testi capace di metterne in luce la composizione e il funzionamento interni? La risposta sta nel considerare qualunque oggetto come una entità capace di significare e di comunicare. Si tratta allora di capire come questo oggetto organizza i propri elementi interni in modo da far emergere un senso da questo disegno, così come di capire che piega e che effetti questo senso prende – in una parola, si tratta di cogliere la configurazione di questo oggetto. Se questa configurazione ritorna da un oggetto all’altro, significa che c’è un qualche principio comune che li tiene insieme e li sostiene; possiamo legittimamente immaginare che questo principio comune corrisponde allo stile di un’epoca, e cioè al modo in cui una stagione storica arrangia i propri manufatti e facendo questo rivela i propri valori e i propri orientamenti. L’ossessione per lo “spirito di un’epoca” non è nuova: a cavallo tra Otto e Novecento Georg Simmel analizza sistematicamente le forme sociali e artistiche della modernità, e curiosamente le oppone al desiderio moderno di uscire dalla costrizione di una forma, e affidarsi al puro flusso delle cose. Storici dell’arte come Alois Riegl e Heinrich Wölfflin identificano differenti modi di vedere e rappresentare il mondo, e accoppiano i diversi stili a diversi momenti storici o a diversi ambiti culturali. La tentazione di leggere la storia e la geografia dell’uomo attraverso la presenza di forme dominanti è ricorrente, e pienamente legittima. Quello che Calabrese fa, è in qualche modo più radicale: non privilegia più alcuni manufatti su altri, ma allarga la platea dei suoi esempi a oggetti che possiamo ben dire quotidiani – oggi, cosa c’è di più quotidiano di un modo di vestirsi, di una scelta culinaria, o di una trasmissione televisiva? – e insieme analizza questa quotidianità con gli strumenti più raffinati con cui si è soliti interrogare le emergenze eccezionali – diciamo: le opere d’arte. L’effetto è quello non solo di alzare il livello della lettura, ma anche quello, fin da subito, di dare un’idea che cosa veramente vuol dire un’epoca: è il grande magazzino dell’industriosità umana, il conglomerato di gadget, utensili, e tic, insomma, il deposito del tutto che ci circonda. Solo navigando questo tutto su una scialuppa super attrezzata si attraversa questo mare – e ci si salva dal naufragio.
Salvarsi dal naufragio. La seconda sorpresa de L’età neobarocca è che non si tratta solo di una ferratissima analisi dell’epoca in cui è stato scritto. La semiotica letteraria, figurativa, o audiovisiva, è sempre stata una scienza analitica. Nel libro di Omar Calabrese essa ritrova una delle proprie radici, e diventa una scienza diagnostica. I tratti ricorrenti degli oggetti e degli eventi che popolano l’epoca servono anche a identificare patologie, in particolare patologie che sono diventate endemiche fino a caratterizzare lo stato di salute dell’epoca stessa. Voglio essere chiaro: L’età neobarocca non assegna un valore negativo a ciò che appare deviante rispetto a un presunto canone e uno positivo a ciò che appare conforme; in una densa sezione dedicata ai valori, Omar Calabrese liquida l’idea stessa di canone, e rifiuta l’ipotesi di contrapporre positivo e negativo senza pensare a stati intermedi, a tensioni reciproche, e a convergenze possibili. Quello che a Calabrese interessa è disegnare una geografia di forme e concetti che caratterizzano un’epoca. Tuttavia, questo disegno restituisce anche le potenziali debolezze del tempo: ad esempio, non è difficile cogliere in esso come l’eccesso e il difforme che caratterizzano le forme barocche preannunciano quella perdita di equilibri nel nostro rapporto con il mondo e con gli altri che vediamo esplodere oggi, fino a mettere in pericolo il nostro habitat e noi stessi. Insomma, nel ritratto di Calabrese cogliamo in filigrana anche quegli aspetti potenzialmente drammatici che, con la coscienza di oggi, vediamo pienamente emergere nel nostro mondo attuale. Le fake news, la dilapidazione delle risorse, la sottovalutazione della Natura sono in nuce nelle pieghe del Barocco.
Se ne L’età neobarocca questi tratti drammatici rimangono spesso in filigrana, quello che viene più in vista è un ritratto che esalta le potenzialità dell’epoca, la sua vitalità, la sua capacità di lanciare e sostenere sfide. E questa è una terza svolta che contrassegna il libro di Omar. La semiotica non è più semplicemente una scienza descrittiva; nel favorire la conoscenza di un oggetto o di un evento, essa fa anche emergere una coscienza – e cioè quel movimento autoriflessivo che si riversa sul rapporto che noi abbiamo con ciò che maneggiamo e con noi stessi. Questa svolta della semiotica era stata prefigurata in qualche modo più da Roland Barthes che da studiosi come Algirdas Greimas: i suoi “miti d’oggi” spesso ingaggiano autore e lettore a una presa di coscienza, oltre che a una conoscenza. Omar Calabrese, il cui debito verso Greimas è evidente sul piano delle categorie analitiche, fa anche tesoro della lezione di Barthes: nell’analizzare un’epoca, non si limita a contemplarla, ma fa anche emergere un orizzonte di impegno reciproco. Ad anni di distanza, questa capacità non semplicemente di padroneggiare un oggetto, ma anche di conquistare un orizzonte in cui collocare sia l’oggetto che se stessi, mi sembra la qualità maggiore del libro di Omar. Ci si legge il ritratto di un’epoca, ma anche la febbre di chi la abita: la possibilità di fare piani, di intervenire sulle cose, di capire e insieme di agire. Al di sotto dell’apparente impassibilità dello studioso, c’è la passione di un cittadino che, nel capire il proprio tempo, vuole viverlo fino in fondo.
Naturalmente L’età neobarocca è anche qualcosa di più che un libro di svolta. Se la sua lezione rimane intatta – la semiotica deve avere il coraggio di sé stessa; deve avventurarsi anche in diagnosi; e deve lasciare che l’oggetto analizzato catturi a sua volta l’analista – il tempo trascorso dalla sua pubblicazione gli dà anche un qualche supplemento di fascino. Esso è pur sempre una piacevolissima ricostruzione di un’epoca che può sembrare ormai lontana. Non una fotografia sgranata e in bianco e nero, che guardiamo per affetto verso il passato, ma un ritratto dettagliato e insieme coinvolgente di un pezzo della nostra storia. I sopravvissuti troveranno piacevole rivedere come eravamo; e i contemporanei potranno cogliere le lontane radici dell’epoca confusa, contraddittoria, tragica, che stiamo vivendo. Se l’ambizione dichiarata di Omar era di ricostruire “una geografia di concetti che ci illustreranno tanto l’universalità del gusto neobarocco quanto la sua specificità epocale,” la mappa che ne ha tratto combina la funzionalità dei dati con una rappresentazione sontuosa. In questo, se posso, ricorda più le carte geografiche che intravvediamo sullo sfondo dei quadri di Vermeer che le asciutte mappe topografiche dell’Istituto Geografico Militare che portavamo con noi quando andavamo insieme in montagna. Ci si immedesima nella descrizione di Omar.
Concludo con una piccola nota personale. La lettura del manoscritto de L’età neobarocca non solo intensificò le conversazioni con Omar (e nella sua introduzione alla prima edizione del libro, Omar mi fece il regalo di ricordare quelle conversazioni), ma anche mi aiutò a mettere in discussione il mio stesso lavoro. La mia scrittura, fino ad allora molto tecnica, cominciò a sciogliersi, e gli scenari che affrontavo, sempre molto specifici, cominciarono ad allargarsi. Iniziai un percorso che nei primi anni duemila mi portò a mia volta a tentare la strada di un grande ritratto del tempo – una scelta a cui sono stato in qualche modo fedele anche nei miei lavori successivi. Devo a Omar, e alla seduzione del suo libro, parte dello studioso che sono diventato. Lo ricordo qui con riconoscenza e affetto.

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