Teatro e sport

A proposito del “dossier Pantani”

Marco De Marinis

Teatro e sport

A proposito del “Dossier Pantani” a cura di Gerardo Guccini pubblicato nell’ultimo annale di “Culture Teatrali” (22, 2013), attualmente nelle librerie.

Affinità, intrecci, rivalità
Che fra il teatro e lo sport esistano da sempre profonde affinità e anche forti rivalità, è cosa nota. Del resto, gli sport debbono essere considerati un genere di spettacolo dal vivo e, per parte sua, il teatro ha sempre contenuto a più livelli una dimensione competitiva, agonistica, a cominciare dal fatto che nella Grecia antica le tragedie e le commedie venivano presentate in vere e proprie gare, con tanto di vincitori e di premi.
Ma è nella Roma classica che gli sport prendono decisamente il sopravvento sugli spettacoli drammatici: dalle corse di cavalli nel circo (il Circo Massimo -è il caso di ricordarlo- fu costruito cinque secoli prima del primo teatro in pietra, il Teatro di Marcello!) al pugilato, ai ludi gladiatori dell’età imperiale, i romani costantemente mostrarono di preferire gli spettacoli sportivi a quelli teatrali. Fra le tante testimonianze, spicca quella del grande commediografo Terenzio, che nel prologo di una sua commedia si lamenta della volta in cui il teatro in cui veniva rappresentato rimase quasi vuoto perchè tutti gli spettatori erano corsi a vedere i pugilatori. Tra Medioevo e Età Moderna, si dettero nuovi intrecci fra sport e teatro: basti pensare ai tornei, i quali nascono come vere e proprie gare cavalleresche, tendenzialmente cruente se non mortali, e finiscono per diventare una forma di spettacolo, uno dei momenti più partecipati delle feste di corte fra ’400 e ’500, pur non perdendo del tutto l’aspetto di competizione -fino all’esito seicentesco dell’Opera -torneo, ospitata addirittura sul palcoscenico, come accadde ad esempio al Teatro Farnese di Parma nella prima metà del XVII secolo.
Questa storia antica di affinità, intrecci e rivalità conosce da oltre un secolo un capitolo del tutto nuovo, al quale ancora apparteniamo. Questo capitolo inizia con la nascita dello sport moderno, sancita dalla prima Olimpiade moderna, che si svolse a Atene nel 1896. E’ interessante notare come gli sport rinascano nel clima di quella Körperkultur, vera propria “riscoperta” del corpo, che caratterizzò a tutti i livelli la società europea, anzi occidentale, a partire dalla fine del XIX secolo, e che ebbe importanti ricadute anche in campo teatrale (con la danza a far ovviamente da pioniera: si pensi almeno a Isadora Duncan), mettendo al centro dell’attenzione il corpo dell’attore e quindi la necessità del suo addestramento fisico.
Se andiamo a guardare i programmi delle nuove scuole di teatro, che nascono un po’ ovunque in Europa e in America, sulla scia di quelle di ritmica e di danza aperte rispettivamente da Jaques-Dalcroze e da Laban, e soprattutto degli Studi inaugurati da Stanislavskij a Mosca a partire dal 1911, restiamo colpiti nel constatare come esse pullulino letteralmente di discipline fisiche e di veri e propri sport: ginnastica, ritmica, scherma, boxe, acrobatica, etc. Ad esempio, nella sua scuola pietroburghese di via Borodinskaja, verso la metà del secondo decennio del ’900, Mejerchol’d prescriveva ai suoi allievi danza, atletica leggera e scherma, mentre il tennis, il lancio del disco e la vela venivano consigliati! E nel decennio successivo, quando varerà la Biomeccanica, accanto a numeri circensi e alle arti marziali orientali egli inserirà anche veri e propri esercizi sportivi, dal lancio della pietra al tiro con l’arco, al salto sul petto.
Per farla breve, l’”uomo di sport” (titolo di un celebre ciclo figurativo del mimo Etienne Decroux) si impone come uno dei modelli dell’attore nuovo, assieme al lavoratore manuale e all’artigiano: si tratta, in tutti questi casi, di maestri dell’azione fisica intesa come azione reale (non realistica!), ai quali gli aspiranti attori debbono carpire il segreto della coscienza e conoscenza corporee per poter arrivare a conferire credibilità ed efficacia al proprio agire scenico.
E non si fa fatica a capire come, in un clima del genere, il pugile Georges Carpentier, detto l’”uomo orchidea” per la sua bellezza e per l’eleganza della sua scherma boxistica, uno degli inventori del pugilato moderno agli inizi del secolo scorso, sia potuto diventare un riferimento ideale anche per molti uomini di teatro, da Jacques Copeau al già citato Decroux, che ne parla come di una delle fonti d’ispirazione fondamentali per il mimo corporeo (su Georges Carpentier e altre vicende della boxe legate alla scena contemporanea, si veda il bellissimo saggio di Franco Ruffini: Teatro e boxe. L’”atleta del cuore” nella scena del Novecento, Bologna, Il Mulino, 1994; ripubblicato di recente, rivisto e ampliato, con il titolo L’attore che vola: boxe, acrobazia, scienza della scena, Roma, Bulzoni, 2010).
Una delle immagini più belle ed efficaci ce l’ha lasciata, anche in questo caso, Antonin Artaud, quando -nel libro Il Teatro e il suo doppio (1938)- parla dell’attore come di un “atleta del cuore” e definisce una sorta di allenamento teatrale di base in termini di “atletismo affettivo”.
Ma naturalmente è nei teatri-laboratorio della seconda metà del Novecento (quelli fondati da Grotowski e da Barba, principalmente) che bisognerebbe andare a verificare il persistere di questa presenza sportiva nel training dell’attore contemporaneo (cfr. Mirella Schino, Alchimisti della scena. Teatri laboratorio del Novecento europeo, Roma-Bari, Laterza, 2009).

Capacità mitopoietica dello sport contemporaneo

Non c’è dubbio che lo sport rappresenti nell’età contemporanea una nuova e potente forma di mitologia e di epica, con frequenti risvolti tragici, del resto connaturati al mitologico e soprattutto all’epico (si pensi ai poemi omerici, alla Bibbia, al Mahabharata indiano).
Forse l’esempio più lampante di questa capacità mitopoietica dello sport moderno è fornita dall’automobilismo, proprio perchè vi è insito un tasso altissimo di rischio, di pericolo mortale: il pilota di Formula Uno come prototipo di nuovo eroe, la cui entrata definitiva nella leggenda è spesso legata alla morte al volante, esoso ma sicuro viatico per l’immortalità: da Ascari a Senna a tanti altri (ma Nuvolari e Fangio, ad esempio, non ne ebbero bisogno).
Il pugile è un altro prototipo di moderno eroe, soprattutto quando la sua carriera, con l’ascesa irresistibile, le cadute e le resurrezioni, si presta a raccontare una vicenda eccezionale, che nello stesso tempo può assurgere a parabola o allegoria della condizione umana, nella quale la sovrumana (divina?) spinta al riscatto e al trascendimento deve fare i conti con l’inevitabile destino dell’échec, dello scacco esistenziale: l’invecchiamento, la malattia, la morte. Da Primo Carnera a Jack La Motta (non a caso, protagonisti di molti film), a Cassius Clay, il quale, alla classe purissima del campione (quasi) invincibile, aggiunse l’elemento dell’impegno politico con la sua militanza, come Muhammad Alì, a favore del movimento musulmano nord-americano. In questo, ma solo in questo, Clay ricorda il protagonista di un racconto di Jack London, Il Messicano, il cui protagonista è un pugile, per altro mediocre, che diventa di colpo un campione proprio grazie alla forza della causa rivoluzionaria per la quale si batte. E va ricordato che questo racconto fu oggetto di una celebre messa in scena da parte di Ejzenštejn nel 1921 a Mosca, con tanto di vero ring in scena, sul quale, nelle intenzioni originarie del giovane regista, avrebbe dovuto svolgersi un vero incontro di boxe con i veri spettatori tutt’intorno.
Anche l’atletica leggera ha prodotto mitologie ed epiche, soprattutto quella degli anni eroici, nella prima metà del Novecento: su tutti citerei l’impresa di Dorando Pietri (più noto come Petri), il maratoneta che, ai Giochi Olimpici di Londra (1908), ormai solo in testa alla corsa, crolla stremato dalla fatica a pochi metri dal trionfo nello stadio e viene sorretto da un giudice affinchè riesca ugualmente a tagliare il traguardo (naturalmente fu squalificato e gli fu tolta la medaglia d’oro).
Se non m’inganno, proprio il calcio, lo sport impostosi come il più popolare a livello mondiale nel corso del secolo passato, fa più fatica ad arrivare all’epopea eroica e mitopoietica, forse perchè sport di squadra. E però Meazza, Pelé, Puskas, Di Stefano, Riva e Rivera, Maradona più di tutti, nonostante aspetti controversi del suo privato (o magari anche grazie ad essi), forse ancora Baggio, sono tutti diventati qualcosa di più di grandi personaggi sportivi nell’immaginario collettivo. Ma se devo guardare alla drammaturgia contemporanea oltre che all’immaginario collettivo, allora ci sono due partite di calcio che, almeno nel nostro Paese, si staccano nettamente rispetto alle altre: Italia-Germania 4-3, semifinale ai Mondiali messicani del 1970 (una targa ricorda l’evento nello stadio Atzeca di Città del Messico) e Italia-Germania 3-1, finale ai mondiali spagnoli del 1982. In particolare, i festeggiamenti dopo la vittoria dell’82 li ricordo come forse l’ultima grande festa di popolo veramente condivisa, unanime, a cui abbia avuto la fortuna di partecipare (all’epoca venne evocata addirittura la Liberazione dell’aprile ’45, di cui non ho esperienza diretta per ragioni anagrafiche).
E veniamo al ciclismo, che ho lasciato per ultimo perchè è lo sport che dà occasione alla presente nota.
Anche il ciclismo è stato uno sport epico e potentemente mitopoietico, anch’esso soprattutto nella sua fase eroica (che adesso conviene precisare, e la precisazione vale anche per gli altri sport, come fase antecedente l’avvento della televisione): fango, sudore, strade sterrate che si inerpicano crudelmente, fatica indicibile. Il tutto immaginato attraverso le foto dei giornali dell’epoca ma principalmente attraverso le voci dei radiocronisti, a cominciare da quella del più celebre, Mario Ferretti: “un uomo solo è al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi”. Quasi sempre l’epica del ciclismo (ma questo in realtà vale anche per gli altri sport individuali: si pensi al tennis, con Borg/McEnroe o Federer/Nadal) si è nutrita della rivalità fra due campioni antagonisti: Binda e Guerra, Merckx e Gimondi, ma più di tutti -almeno da noi- Coppi e Bartali, perfetti nel rappresentare le due Italie sempre in lotta fra loro, Guelfi e Ghibellini; e si è potuto sostenere con qualche fondamento che la vittoria di Bartali al Tour de France del ’48, pochi giorni dopo l’attentato a Togliatti, ci salvò dal rischio di una guerra civile!
Ma io qui voglio ricordare il piccolo e fragile corridore lussemburghese Charly Gaul, forse il più grande scalatore di tutti i tempi e tuttavia capace di dissipare spesso in discesa, o con incredibili ingenuità, quello che conquistava in montagna, e forse proprio per questo capace di incarnare una moderna, affascinante versione degli antichi eroi: invincibili e vulnerabili insieme. Come Achille. O Come Marco Pantani, che più di Gaul mescola nella sua vicenda trionfi e sconfitte, il successo del predestinato e il fato che l’attende dietro l’angolo, per trasformarlo in vittima sacrificale. E’ quanto accade con i numerosi incidenti gravi subiti stando in sella ma soprattutto con la mai ben chiarita vicenda del doping, che dal 1999, da quel maledetto giorno a Madonna di Campiglio durante il Giro d’Italia, lo vedrà scivolare e precipitare irrefrenabilmente, fino alla morte per overdose di cocaina in un residence di Rimini nel 2004 a soli trentaquattro anni: un perfetto eroe tragico, forse un capro espiatorio, come ci spinge a pensare lo splendido spettacolo di Marco Martinelli del 2012, basato su di un suo magnifico testo (che sarà pubblicato tra breve), intitolato semplicemente (ma non casualmente) Pantani. Lo stesso Martinelli -è il caso di ricordarlo- che diversi anni fa ci aveva dato un testo teatrale dedicato al mondo del calcio giovanile in Romagna (Incantati. Parabola dei fratelli calciatori [1994]), riproposto di recente.
Chissà cosa avrebbe scritto di lui Roland Barthes? Se me lo chiedo è perchè il grande critico francese contribuì da par suo a consacrare il ciclismo come moderna mitologia ed epica contemporanea con alcuni articoli scritti negli anni Cinquanta e poi tempestivamente raccolti nel 1957 nel volume Mythologies, in italiano Miti d’oggi, pubblicato per la prima volta dall’editore Lerici nel 1962. Val la pena di aprire il volume per leggere alcuni stralci da Il Tour de France come epopea, del ’54, con un aggiunta dell’anno successivo. Benchè scritto tanti anni prima dell’avvento di Pantani, questo scritto di Barthes ci spiega molte delle ragioni del successo del Pirata (uno dei tanti nomignoli affibiatigli), capace di riportare nuovamente il ciclismo ai fasti di una dimensione arcaica ed eroica che, paradossalmente ma non troppo, proprio il più grande di tutti i corridori moderni, Eddy Merckx, Il Cannibale, gli aveva tolto, con la complicità decisiva -va ripetuto- della televisione:

C’è un’onomastica del Tour che ci dice da sola come il Tour de France sia una grande epopea. […] In realtà, l’ingresso nell’ordine epico si attua mediante la diminuzione del nome: Bobet diventa Louison; Lauredi, Nello; e Raphael Geminiani, eroe completo perchè insieme buono e valoroso, è chiamato a volte Raph, a volte Gem. [...]Diminuito, il Nome diventa veramente pubblico; permette di collocare l’intimità del corridore sul proscenio degli eroi. Giacché il vero luogo epico non è il combattimento, ma la tenda, la soglia pubblica in cui il guerriero elabora le sue intenzioni, da cui lancia ingiurie, sfide, confidenze. […] La geografia del Tour è, anch’essa, interamente soggetta alla necessità epica della prova. Gli elementi naturali e i fondi stradali sono personificati, giacché l’uomo si misura con essi, e come in ogni epopea occorre che la lotta metta di fronte misure uguali: l’uomo è così naturalizzato, la Natura umanizzata. Le salite sono maligne, ridotte a “percentuali” aspre e mortali, e le tappe, che nel Tour hanno ciascuna l’unità di un capitolo di romanzo […] sono prima di tutto personaggi fisici, nemici successivi, caratterizzati da quel misto di morfologia e di morale che definisce la Natura epica. […] La tappa che subisce la personificazione più forte è quella del Monte Ventoso [sulle cui rampe assolate e brulle perse la vita il ciclista britannico Thomas Simpson nel Tour del '67 e Pantani siglò, trent'anni dopo, alcune delle sue imprese più leggendarie]. I grandi passi, alpini o pirenaici, per duri che siano, restano malgrado tutto dei passaggi, sono sentiti come oggetti da attraversare […]; il Ventoso invece ha la pienezza di un monte, è un dio del Male al quale bisogna sacrificare: vero Moloch, despota dei ciclisti, non perdona ai deboli, esige un ingiusto tributo di sofferenze. […] Naturalmente l’adesione del corridore a questa Natura antropomorfica può compiersi solo per vie semireali. […] Lo scatto implica un ordine soprannaturale in cui l’uomo riesce in quanto ci sia un dio ad aiutarlo […], e Charly Gaul, beneficiario prestigioso della grazia, è appunto lo specialista dello scatto; egli riceve la sua elettricità da un intermittente commercio con gli dèi; a volte gli dèi lo vistano e lui fa strabiliare; a volte gli dèi lo abbandona, lo scatto è esaurito, Charly non è più buono a niente. C’è una terribile parodia dello scatto, la “bomba”; drogare il corridore è tanto criminale, tanto sacrilego quanto voler imitare Dio, è rubare a Dio il privilegio della scintilla. […] Bobet è un eroe tutto umano, che non deve niente al Soprannaturale e ricava le sue vittorie da qualità puramente terrestri, maggiorate grazie alla sanzione umanistica per eccellenza: la volontà. Gaul incarna l’Arbitrarietà, il Divino, il Meraviglioso, l’Elezione, la complicità con gli dèi; Bobet incarna il giusto, l’Umano, Bobet nega gli dèi, Bobet illustra una morale dell’uomo solo. Gaul è un arcangelo, Bobet è della stirpe di Prometeo, è un Sisifo che riesce a far precipitare il masso su quegli stessi dèi che l’hanno condannato a non essere magnificamente che un uomo.

(R. Barthes, Miti d’oggi, Torino, Einaudi, 1974, pp. 108-112)
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