Vittorio Giudici per Mario Guaraldi

foto Guaraldi

Mario Guaraldi con Vittorio Giudici 
in una caricatura di Andrea Rauch del 1977.

 

 

Ieri mattina è morto l’editore Mario Guaraldi. Aveva 83 anni, vissuti molto intensamente.

L’avevo incontrato quando ero ancora molto giovane e da allora ho avuto il previlegio e il piacere di un’amicizia profonda e lunga.

Soprattutto gli devo molto. Mario è stato il mio maestro nel mestiere di editore.

I maestri, in genere, insegnano, correggono, sgridano. I grandi maestri si distinguono perché aiutano gli allievi. I grandissimi maestri vanno oltre perché contribuiscono a farci capire noi stessi: con il suo esempio Mario ha fatto esplodere in me la passione per l’editoria.

Al mestiere di editore si accompagna anche la difficoltà ad accontentarci di ciò che si riesce a realizzare. Si è soggetti a un’aspirazione pretenziosa di una compiutezza inarrivabile. Questo tarlo riaffiorava in Mario Guaraldi che, con la sua attitudine all’ironia, a volte si è voluto definire «un editore di insuccesso».

Era difficilissimo togliergli dalla testa questa visione del tutto errata, profondamente infondata.

Dirò più avanti dell’unica volta in cui mi ha quasi dato ragione.

Prima mi soffermo su una stagione importante della sua lunga, utilissima e generosa attività.

Pochi giorni fa Rimini, dove Guaraldi era nato il 26 settembre 1941 e dove è morto il 2 gennaio 2025, gli aveva conferito il Sigismondo d’oro, saldando così il debito di riconoscenza che la sua città aveva maturato per il modo in cui Mario era riuscito a illustrarla.

C’è invece un’altra città, la mia Firenze, che non ha estinto il debito di riconoscenza verso Mario per ciò che egli le ha dato negli anni Settanta del Novecento.

A quel tempo le cronache fiorentine e le lamentele dei fiorentini sottolineavano la progressiva dispersione dei fasti editoriali ottocenteschi e della prima metà del Novecento.

La condanna all’emigrazione, in particolare verso Milano, da parte degli intellettuali, degli artisti, dei creativi era accentuata dalla decadenza dell’industria editoriale locale.

«Per pubblicare dobbiamo prendere il treno» era solito ripetere un talentuoso musicista e poeta visivo.

Agli inizi degli anni Settanta Mario Guaraldi andò in controtendenza. Il periodo fiorentino della casa editrice Guaraldi merita uno studio attento, cui qui posso solo accennare.

 

Il catalogo della Guaraldi costruito in quel decennio ha due origini:

• la personalità dell’editore, la sua insaziabile curiosità, la sua capacità di saper leggere e di saper assistere e valorizzare autori, traduttori, redattori e grafici, la sua sintonia con i valori della cultura del Sessantotto, la sua eccellenza nell’arte della comunicazione, sostenuta anche da notevoli capacità affabulatorie;

• la chiara consapevolezza dell’editore di essere un organizzatore di cultura e come tale bisognoso della necessaria aggregazione attorno a sé stesso di studiosi capaci di cogliere i bisogni e le innovazioni.

il catalogo della Guaraldi degli anni Settanta è il frutto del talento dell’editore, della sua consapevolezza che i libri si stampano sostenendo gli autori, ma avendo nel contempo una forte attenzione verso le esigenze dei lettori. Il lavoro dell’editore è anche l’esito del lavoro degli intellettuali che egli aggrega e ascolta.

Da un’inconsueta sintesi tra le scelte personali e l’assunzione della responsabilità di aggregare specialisti è nato un catalogo che meriterebbe un esame particolareggiato.

Una parte del catalogo è stata il frutto delle scelte personali dell’editore, della sua passione civile e politica, le passioni degli anni Settanta del Novecento, del dopo Il Sessantotto. Perciò Mario è stato classificato come uno degli “editori del Sessantotto”.

Il primo titolo fu Il calcio come ideologia. È impossibile qui citare tutti quelli che seguirono.

Vale la pena soffermarci sul fatto che Guaraldi colse a pieno le spinte innovative legate alla condizione femminile. Non a caso poche sere fa sulla 7, un’autrice della Guaraldi, Patrizia Carrano, ha ricordato l’importanza di un libro come Compagno padrone di Laura Grasso.

La forza innovativa delle proposte circolava e veniva amplificata nelle pagine dei giornali, a volte nelle prime pagine. Il festoso narcisismo di Mario era momentaneamente appagato quando nella rubrica I segreti degli editori de «L’espresso» di Maria Livia Serini l’incipit era «Un giovane e coraggioso editore…»

In quegli anni Mario ha cercato di dare un senso alla sua collocazione nel panorama editoriale attraverso la formazione del movimento di Editoria Democratica, coinvolgendo un certo numero di colleghi, compreso un grande protagonista dell’editoria europea come Giulio Einaudi.

Ma proprio a proposito della Einaudi Mario, nel suo ringraziamento recentissimo all’attribuzione del Sigismondo d’oro ha ricordato che agli inizi degli anni Settanta la cultura e l’editoria italiane continuavano a confinare le scienze umane in veri e propri ghetti.

In quel tempo, ha ancora rammentato Mario, Paolo Boringhieri aveva dovuto lasciare l’Einaudi e fondare la propria casa editrice per pubblicare Freud. In quel tempo molti grandi intellettuali e i più prestigiosi editori erano ancora prigionieri dello storicismo dominante e consideravano le scienze umane come discipline minori.

A fronte di questa situazione emerge l’importanza dell’aggregazione di studiosi attorno alla casa editrice. Mario ha ricordato, infatti, l’impegno della casa editrice degli anni Settanta nell’introdurre in Italia testi importanti della psicoanalisi, della sociologia, dell’antropologia culturale, della pedagogia.

La Guaraldi, infatti, ha pubblicato opere fondamentali delle prime generazioni post freudiane, autori come Sandor Ferenczi ed Ernest Jones. Ha dato una mano a dare circolazione

alla sociologia in Italia, per esempio pubblicando per prima Pierre Bourdieu. Ha dato voce all’antropologo Luigi Lombardi Satriani e ai suoi allievi.

Inoltre la Guaraldi degli anni Settanta ha dato continuità in forme molto innovative alla consolidata

vocazione pedagogica dell’editoria fiorentina, da Le Monnier alla Nuova Italia di Tristano Codignola. La ricca collezione denominata Le frontiere dell’educazione rispondeva ai bisogni degli insegnanti di favorire lo sviluppo della creatività nelle allieve e negli allievi. Gli autori erano pedagogisti, insegnanti innovativi e appassionati, ma anche artisti, attori, scienziati. Tra i numerosi titoli dedicati al rinnovamento della didattica mi vengono in mente Le comuni infantili. Guida a un’educazione non repressiva, il fortunato titolo Io ero l’albero tu il cavallo, ma anche il Diario di un educastratore, L’animazione teatrale di Giuliano Scabia e I pampini bugiardi di Umberto Eco.

Nei decenni successivi agli anni Settanta le attività editoriali di Mario Guaraldi sono proseguite in altre molteplici e lusinghiere forme. Un aspetto rilevante del suo impegno è stata la forte consapevolezza e fiducia sul fatto che la rivoluzione digitale proponga un clamoroso salto di accessibilità e di fruizione della conoscenza. Mario ha avuto in mente un esito da potersi paragonare a quanto era avvenuto nel XV secolo con l’introduzione e la diffusione della composizione dei testi con i caratteri mobili.

Mario, dunque, ha considerato precocemente la tendenza irreversibile al superamento del cartaceo come una grandissima opportunità per l’umanità.

Gli anni successivi ai Settanta sono una storia diversa da quella sulla quale mi sto attardando.

Il corso della storia, ovviamente, presenta cambiamenti, svolte progressive, involuzioni.

Alcune modalità ingenerose hanno fatto si che Mario abbia sofferto della fine del periodo fiorentino. Ha avuto la tentazione di considerare la fine di questa fase come la prova di essere «un editore di insuccesso». Non ha tenuto conto del fatto che per alcuni anni gli intellettuali fiorentini avevano avuto meno bisogno di prendere il treno per Milano.

Forse teneva conto di certi comportamenti nei suoi confronti da parte dei gestori di case editrici storiche, che poi ben presto sono state coinvolte nelle dinamiche delle concentrazioni delle “tigri di carta”.

Qualche volta ho provato a proporre a Mario una considerazione che avevo ascoltato dalla voce di un grande storico del teatro come Nando Taviani a proposito dell’esperienza di Jacques Coupeau nel Théâtre du Vieux-Colombier. Taviani paragonava i vertici artistici raggiunti durante le stagioni di quel teatro parigino alla conquista della vetta dell’Everest da parte di un alpinista. Aggiungeva che era naturale che dopo un po’ l’aria estremamente rarefatta a quell’altitudine costringeva il conquistatore a scendere a valle. E allora, si chiedeva Nando, l’alpinista deve rammaricarsi di essere sceso o deve essere felice della sua conquista? Mario non ascoltava, al massimo si avventurava a rispondere di non essere mai salito sull’Everest.

Solo una volta sono riuscito a farmi ascoltare, come ho accennato all’inizio. Usai l’espedente di usurpare il ruolo di un accademico. Dissi a Mario che se lui non mi avesse traviato in gioventù e fossi diventato un docente di storia contemporanea, avrei dato volentieri a una studentessa o a uno studente una tesi sull’apporto e l’originalità della casa Guaraldi degli anni Settanta nel contesto della cultura e della società italiana di quel tempo.

In quel giorno Mario commemorava la scomparsa di un editore, suo amico e rivale, Cesare De Michelis della Marsilio. Ne approfittai ricordandogli che quella casa editrice aveva pubblicato, con merito, un gran numero di opere, ma che in quel caso era possibile produrre solo un ricco e splendido catalogo, ma non certo sollecitare una tesi universitaria, come invece era lecito ipotizzare per la Guaraldi fiorentina.

Mi ascoltava, senza ammettere, ma sorrideva ii modo da far sembrare che fosse un po’ convinto.

Resta la colpevole mancata riconoscenza della mia città per un signore che per una decina d’anni ne ha animato aspetti della vita sociale e soprattutto ha ridato una forte dignità a un’editoria in crisi.

Non sono nella condizione né di assumere la rappresentanza della città, né di assegnare una tesi  sulla Guaraldi degli anni Settanta.

Con un po’ di fortuna spero che La Casa Usher possa pubblicare una testimonianza di questa importante storia.

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